Nick Mason live a Milano – la recensione

Nick Mason’s Saucerful Of Secrets – Milano, Teatro degli Arcimboldi, 20 settembre 2018

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Si può suonare un concerto con musiche dei Pink Floyd, attingendo dal loro repertorio che va dal 1967 al 1972 e in meno di due ore avere ai propri piedi tutto il pubblico in sala? E quando lo fai senza schermo circolare, senza un palco stellare pieno di effetti speciali o maiali che volano, senza la chitarra e la voce di un David Gilmour e senza la presenza scenica di un Roger Waters? E cosa accade quando a proporre quella musica non è una delle tante tribute band ma la formazione messa in piedi da Nick Mason, l’uomo che dal 1964 in poi ha stoicamente incarnato tutte le configurazioni dei Pink Floyd?

È quello che è magicamente accaduto a Milano il 20 settembre. Nella splendida sede del Teatro degli Arcimboldi ha avuto luogo l’esibizione di Nick Mason e del suo team di musicisti, intenti a riproporre le musiche del periodo forse meno conosciuto della lunga carriera dei Pink Floyd, sicuramente quello più ‘puro’ musicalmente parlando e dalle forte tinte emozionali. Mason ha proposto una scaletta coraggiosa, una scelta di canzoni del periodo 1967-1972 che nessun fan si sarebbe mai aspettato di poter ascoltare tutte insieme dal vivo.

Il pubblico ha risposto allo spettacolo con grande entusiasmo: sui social i commenti sono stati generalmente positivi, con qualche fan che si è spinto addirittura a considerare il concerto di Nick Mason migliore delle recenti proposte live di David Gilmour e Roger Waters.

La vera domanda è: perché Nick Mason ci ha messo così tanto tempo a portare dal vivo quei piccoli capolavori del passato?

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La nascita del progetto “Saucerful Of Secrets”
Strano il destino di Nick Mason. Da quando i Pink Floyd chiusero il loro tour mondiale relativo a “The Division Bell” nel 1994, durante le sue tante interviste il batterista riceveva puntualmente la fatidica domanda: “Quando ci sarà un nuovo tour dei Pink Floyd?”. E lui, prima credendoci seriamente, poi con la speranza che si affievoliva di anno in anno sempre più, regalava la solita risposta: “Le mie bacchette sono pronte, aspetto solo una telefonata”. Con il trascorrere degli anni la possibilità di ritornare a suonare con la band di cui è stato tra i membri fondatori nel 1964 è svanita un po’ alla volta; con tenacia, il buon Mason riproponeva al giornalista di turno la stessa identica risposta: “Le mie bacchette sono pronte…”. Oggi Nick Mason è il primo a scherzare su se stesso. Con il suo solito spirito goliardico, ha dichiarato “Vivo sempre nella speranza. Sulla mia lapide scriveranno ‘Non sono sicuro che la band sia davvero finita’”.

È trascorso quasi un quarto di secolo ma quella telefonata non è mai arrivata e le bacchette si sono tristemente riempite di polvere. Certo, nel 2005 c’è stata la splendida parentesi del Live8, quando i quattro Pink Floyd si riformarono per dare man forte al progetto benefico del loro amico Bob Geldof. C’è stata poi una reunion tra Gilmour, Mason e Wright, sul palco della Royal Albert Hall il 31 maggio 2006 per uno show del chitarrista. Nel 2007, infine, ebbe luogo l’inaspettata esibizione del trio Gilmour, Mason e Wright per celebrare la figura artistica del loro amico Syd Barrett, scomparso l’anno precedente. Di tour veri e propri però nemmeno l’ombra, anche se tra il 2006 e il 2008 Mason fu ospite sul palco di Roger Waters, sedendosi dietro i suoi tamburi per eseguire l’intero album “The Dark Side Of The Moon”.

Quella chiamata che Mason ha atteso per anni arrivò finalmente alla vigilia dell’inaugurazione della mostra “Their Mortal Remains” a Londra: la voce non era però quella di David Gilmour ma di un altro chitarrista, Lee Harris. Ad attenuare la delusione di Mason, la proposta che Harris gli formulava era bizzarra e al tempo stesso eccitante: creare una nuova band e portare dal vivo essenzialmente il primo repertorio dei Pink Floyd.

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Alzi subito la mano quel fan pinkfloydiano che conosceva già in precedenza chi fosse Lee Harris e in quale band avesse militato in passato. Harris fu uno dei membri fondatori della rock band The Blockheads, che solitamente accompagnava sul palco l’eclettico Ian Dury. Tutto nacque per caso nel 2016, quando Guy Pratt aveva invitato Lee Harris ad assistere ad uno dei concerti in terra francese di David Gilmour. Durante quel concerto parigino, dove Gilmour proponeva alcune storiche canzoni dei Pink Floyd, Harris rimase colpito dall’esecuzione, convincendosi che avrebbe dovuto contattare Mason per proporgli quel progetto. L’idea fu caldeggiata da Guy Pratt, anche se nessuno aveva la certezza che Mason avrebbe accettato. Pratt inviò una mail a Mason e da lì partirono i contatti. A sorpresa, il quasi pensionato pilota-batterista accettò la proposta e poco tempo dopo nacque la band che attualmente sta accompagnando Mason in giro per l’Europa.

Oltre al già citato Lee Harris, entrarono a far parte della Saucerful Of Secrets Band un amico di vecchia data di Guy Pratt, tale Gary Kemp che suonava chitarra e tastiere oltre ad occuparsi dei cori negli Spandau Ballet. Kemp vantava anche un passato come attore: prestò infatti il suo volto per numerosi film come The Bodyguard – sì, proprio quello con Kevin Costner e Whitney Houston!.

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A seguire arrivò il tastierista Dom Beken, famoso produttore e compositore di musiche da film, che ha tra le sue collaborazioni di punta quella con The Orb e con i Transit King, in compagnia di Guy Pratt. Infine il bassista: Pratt non ha bisogno di presentazioni, dato che collabora con i Pink Floyd e con David Gilmour sin dal 1987.

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Tre dei quattro musicisti della band di Mason, si erano già cimentati con il repetorio dei Pink Floyd. Il 6 marzo 1996 infatti Pratt, Kemp e Beken si unirono sul palco di David Gilmour, in occasione della festa privata per i cinquant’anni del chitarrista, suonando insieme diverse canzoni del repertorio pinkfloydiano.

Nick Mason’s Saucerful Of Secrets
La scelta di eseguire materiale del primo periodo pinkfloydiano trovò immeditamente il consenso di Nick Mason. La scelta cadde sulle canzoni del periodo 1967-1972, un momento importante della storia della band, un repertorio capace di rievocare ricordi ed emozioni per un’epoca che non c’è più, quando i soldi non erano più importanti della musica e le loro vite non erano ancora quelle di annoiati miliardari in cerca di svago. Grazie a queste canzoni dell’epoca d’oro dei Pink Floyd, il batterista ha potuto proporre un repertorio profondamente antitetico rispetto alla musica offerta da Gilmour e Waters nei loro recenti tour. Si va da ben sette canzoni dal periodo barrettiano, fino a due brani incisi dai Pink Floyd nel 1972 per la colonna sonora del film “La Vallèe” di Barbet Schroeder, registrato dai Pink Floyd prima di diventare ricche rockstar.

La scaletta è nata sia dai suggerimenti di Mason ma anche dagli altri musicisti della band. Non è un caso che, a marchiare profondamente la loro set list, la prima canzone provata dal quintetto fosse stata la classica “Interstellar Overdrive”. La metodologia di scelta delle canzoni da eseguire non fu quella di proporre le canzoni più conosciute; si è optato per quelle che la nuova band di Mason si divertiva a proporre sul palco.

Nulla è stato lasciato al caso. Ad esempio il nome scelto per il gruppo, “Saucerful Of Secrets”, era quello del secondo e importante album dei Pink Floyd, pubblicato nell’estate 1968 e che segnò il passaggio dal periodo psichedelico alla nuova vita della band, con David Gilmour che entrava a sostituire il loro eroe perduto Syd Barrett. Diciannove anni dopo, fu proprio Gilmour a prendere le redini dei Pink Floyd, che nel frattempo erano entrati nell’olimpo del rock e che sotto la sua guida riuscirono addirittura a incrementare a livello planetario la propria notorietà.

Nel gennaio 2018 la nuova band di Mason, alla presenza di un pubblico ristretto riservato ad amici e collaboratori, si esibì in segreto a Londra in una sorta di data zero del tour attuale. Il risultato fu tanto convincente che furono organizzate per maggio quattro date pubbliche in due piccoli pub londinesi, il Dingwalls a Camden Town e The Half Moon a Putney, riscuotendo un successo strepitoso tra i presenti e una serie di critiche favorevoli. Le basi per affrontare un tour europeo c’erano tutte e poco dopo furono annunciate, dal 2 al 29 settembre, ben ventuno date in alcune tra le sale più prestigiose del continente, come la Roundhouse di Londra, l’Olympia di Parigi e la Guildhall di Portsmouth. Si tratta della prima volta di Nick Mason in tour come solista e a giudicare dalla proposta musicale così poco commerciale, l’attesa è stata ampiamente ripagata.

Milano, Teatro Arcimboldi, 20 settembre

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È finalmente arrivato il giorno della tanto attesa unica data italiana del tour di Nick Mason.

Le luci si spengono, la batteria posizionata al centro del palco viene illuminata di rosa e, confermando la tradizione pinkfloydiana, partono i classici effetti sonori che solitamente introducevano i loro concerti dal vivo. Per alcuni minuti si sentono diversi rumori ambientali uniti a quelli degli uccellini, poi una voce femminile e infine partono alcuni effetti elettronici, in un caos auditivo che proietta gli spettatori su un’astronave che sembra vagare nell’universo. Il sonoro si intensifica, tutte le luci in sala si spengono e arriva un countdown vocale che sfocia in un’esplosione sonora. Nel frattempo i musicisti sono entrati in scena, con un Guy Pratt supereccitato che saltella nella propria postazione. Ricordate l’intervista a Barrett e Waters realizzata dalla BBC nel 1967 con il presentatore, Hans Keller, che prova a mettere in difficoltà i due musicisti? La domanda più famosa di quella intervista era riferita al loro suono e fu “Why does it all have to be so terribly loud?” (Perché tutto deve essere così terribilmente forte?). La registrazione di questa frase viene diffusa in sala con le parole “terribly loud” che si ripetono ossessivamente. È l’inizio del viaggio musicale proposto da Nick Mason, che nel corso dello spettacolo riposizionerà le lancette del tempo fino agli esordi dei Pink Floyd.

Al chitarrista Lee Harris, illuminato con una luce color rosso, tocca l’onere di rivestire i panni di Syd Barrett, lanciando l’inconfondibile riff di Interstellar Overdrive, che magicamente trasferisce a Milano le atmosfere dell’UFO Club di Londra. Lo segue a ruota la chitarra di Gary Kemp, mentre Pratt di spalle saltella mostrando il tempo iniziale a Nick Mason. La musica ha una resa sonora perfetta e anche questo conferma la tradizione pinkfloydiana.

La band è ormai super affiatata in quanto, dalla prima data svedese del tour partito il 2 settembre, ha già presentato lo stesso spettacolo una dozzina di volte. Super sorvegliato speciale da Guy Pratt è Nick Mason, che viene spesso in soccorso del batterista, mostrandogli il giusto tempo, incoraggiandolo con cura tra sorrisi e smorfie varie.

Nonostante la buona volontà, Mason si dimostra arruginito e spesso pericolosamente fuori tempo, sbagliando diverse volte gli attacchi e altro ancora; sarà l’età oppure i tanti anni di inattività ma i fan presenti in sala sono disposti a perdonargli tutto o quasi. Il suono della batteria è però ottimo e il buon Nick picchia duro sulle pelli, riportando alla memoria i tempi che furono e ci dà dentro come se non ci fosse un domani. A confermare che sarà una serata piena di sorprese musicali, Lee Harris durante la sezione “improvvisata” di Interstellar Overdrive inserisce a sorpresa con la sua chitarra una sezione dal cantato di The Embryo!

Neanche il tempo di prendere fiato e la band intona Astronomy Dominé, colorando l’Arcimboldi di atmosfere psichedeliche. Harris e Kemp duettano con la loro sei corde ubriacando i presenti che li ricompensano con un applauso fragoroso e un’ovazione generale.

A questo punto Mason si alza in piedi, restando fermo dietro i suoi tamburi e prende un microfono per parlare con il suo pubblico. Ringrazia tutti e con tono scherzoso mette subito le cose in chiaro, colpendo con una bella spallata i suoi ex compagni di avventura Gilmour e Waters ma anche la miriade di cover/tribute band che eseguono la loro musica: “Noi non siamo The Australian Roger Waters e neanche i Danish Gilmours… Siamo i Nick Mason’s Saucerful Of Secrets”. Giù applausi! Per far capire che non hanno nessuna intenzione di abbassare il tiro, partono subito dopo con una vera e propria primizia, una versione tiratissima di Lucifer Sam. Terzo classico barrettiano in scaletta, anch’esso proveniente dal loro primo album “The Piper At The Gates Of Dawn” e non se ne conoscono registrazioni dal vivo sia nella formazione con Barrett che in quella con Gilmour. In questo, così come in altre canzoni in scaletta, si notano tutti i limiti del suono delle tastiere dell’ottimo Dom Beken; le magie analogiche del Farfisa o dell’Hammond che caratterizzavano il suono pinkfloydiano dei primi anni, si perdono totalmente tra i bit campionati delle attuali tastiere digitali.

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Dal 1967 si passa direttamente al 1971, con una delle due canzoni in scaletta tratta dall’importantissimo album “Meddle”. È Fearless, recentemente portata sul palco anche da Roger Waters, eseguita in versione molto fedele all’originale, con Gary Kemp che è intanto passato alla chitarra acustica e che canta con il suo stile delicato. In evidenza il basso di Pratt e il pianoforte di Beken. Il coro dei tifosi del Liverpool, You’ll Never Walk Alone, precede la prima strofa e viene fatto ascoltare anche sul finale. Mason sorride ai saltelli vari di Pratt, a conferma che il clima sul palco è rilassato e di grande armonia. Cambiano anche gli effetti luce sul palco, con la proiezione di una serie di immagini multicolore.

Il coro dei tifosi inglesi si fonde così alle tastiere introduttive dello strumentale Obscured by Clouds, tratto dall’album omonimo, seguito da When You’re In così come accadeva nel disco del 1972. Beken la esegue inizialmente in piedi, cercando di tirar fuori i suoni giusti dalle sue tastiere, lanciando un cenno con il capo a Mason che può così introdurre quel ritmo ossessivo che caratterizza il brano di apertura del film di Schroeder. Harris e Kemp suonano in contemporanea la chitarra in modalità slide, con Pratt che non riesce a star fermo e comincia la sua lunga marcia sulle assi del palco milanese, regalando un giro di basso che sembra richiamare quello di Careful With That Axe Eugene.

Un altro tuffo nel 1967 in scaletta, questa volta si tratta del primo singolo dei Pink Floyd, la classica Arnold Layne firmata da Syd Barrett. Ad introdurre il brano con la sua chitarra è Gary Kemp, che la canta coadiuvato da Pratt. Mentre i musicisti la eseguono, vengono proiettate sullo schermo alcune immagini di repertorio di Mason come quelle alla tv belga e a quella francese del 1968, dal concerto di St. Tropez del 1970 e dal film Live at Pompeii. Scatenato Pratt che tira fuori un intenso e sostenuto giro di basso.

Le sorprese sembrano non avere mai fine. Sempre in territorio di Barrett la seguente Vegetable Man, nella quale si ripete il duetto vocale tra Pratt e Kemp. La canzone sull’uomo vegetale era una delle ex inedite più conosciute del primo periodo dei Pink Floyd, ed è stata pubblicata ufficialmente soltanto nel 2016 all’interno del cofanetto “The Early Years 1965-1972”.

Mason torna in piedi e presenta le due canzoni eseguite in precedenza con la sua band. È il momento di tributare i giusti meriti a Syd Barrett, con il batterista che afferma candidamente che senza di lui probabilmente non ci sarebbero stati i Pink Floyd. Il pubblico gradisce e il convinto, lungo applauso a Syd è condiviso da tutti i presenti in sala. Prima di proseguire con lo spettacolo, Mason presenta i quattro musicisti che formano la Saucerful Of Secrets Band (gli applausi più forti sono per la coppia Pratt-Kemp) e subito dopo Pratt introduce al pubblico Nick Mason che si guadagna una vera e propria ovazione.

Kemp, illuminato in solitaria da due fasci di luce, imbraccia la sua chitarra acustica e intona la delicata ballata If, scritta da Roger Waters nel 1970 per il disco “Atom Heart Mother”, alla quale si affianca al cantato anche Pratt. Seguono la chitarra di Harris e le tastiere di Beken che riprendono i suoni originali. L’esecuzione di If sembra fermarsi all’improvviso, legandosi al brano successivo, una possente e maestosa esecuzione di Atom Heart Mother salutata dal pubblico con un boato! Eseguita nella sua classica versione senza orchestra del periodo 1970-1971, è stata suonata in una versione concentrata a soli otto minuti, un susseguirsi di emozioni e di vibrazioni che solo la musica di quel periodo pinkfloydiano riesce a regalare. Particolarmente vibrante il momento in cui le due chitarre si sussegguono in un caleidoscopio in chiave slide, che lascia il pubblico senza fiato. La sezione del coro, che solitamente veniva cantata da Gilmour con un forte effetto eco, è qui eseguita alle tastiere. ‘Tosta’ anche la sezione denominata Funky Dung, un’esplosione di potenza che coinvolge tutti i musicisti sul palco. La suite termina quando ritorna la voce di Kemp, seguita ancora da Pratt, che regalano la chiusura dell’iniziale If.

Arriva il turno al microfono di Guy Pratt, che introduce il brano successivo, The Nile Song, da lui definita come rock and roll. Si tratta effettivamente di un rock molto tirato, che i Pink Floyd avevano registrato nel 1969 per la colonna sonora del film More, una delle poche occasioni in tutta la loro discografia in cui si sono lasciati andare toccando sonorità di questo tipo. A Pratt il piacere di replicare la performance vocale di Gilmour, graffiando all’inverosimile con la sua voce. Abbastanza ruvidi come ci si aspettava anche i due solo di Lee Harris, bravo a replicare il suono crudo della Fender di Gilmour. A fine canzone, Pratt racconta un aneddoto legato alla canzone, che conobbe ai tempi della scuola grazie alla raccolta economica “Relics” del 1971. Nel 2006, quando Gilmour stava preparando il suo tour, Pratt aveva consigliato di eseguire proprio la canzone del Nilo. In tutta risposta, David Gilmour gli aveva consigliato di suonarla con un’altra band… ed è proprio quello che Pratt ha fatto stasera, aspettando dodici anni prima di poter esaudire il suo desiderio!

Si resta all’interno della colonna sonora di More, con una delicata versione di Green Is The Colour, introdotta dal suono dei gabbiani così come nel disco del 1969. Questa volta è Harris ad imbracciare la Martin acustica. La voce di Kemp è dolce e suadente, anche se non riesce a raggiungere i picchi a cui ci aveva abituato Gilmour, mentre l’arrangiamento viene modernizzato nei suoni e nelle armonie. È sempre Kemp a prodursi in un primo solo, seguito da quello al basso di Pratt, che si unisce al coro per la chiusura della canzone.

Prima di proseguire nella scaletta, Kemp racconta al pubblico quando ha conosciuto i Pink Floyd, riportando indietro la sua memoria al tour di The Dark Side Of The Moon negli anni Settanta, fino a quando è stato presentato a Nick Mason negli anni Duemila. I complimenti di Kemp al batterista si sprecano ma non è mera piaggeria: la disponibilità e il carattere di Mason fanno ormai parte della sua storia.

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Adesso dall’impianto di diffusione sonora arriva la voce di John Peel, lo speaker radiofonico della BBC e grande amico della band, scomparso nel 2004, che annuncia al pubblico Let There Be More Light. A rendere possibile questa magia è una registrazione del suo programma “Top Gear” del 25 giugno 1968, presente all’interno del box “The Early Yeas 1965-1972”. Guy Pratt mette subito le distanze tra il suo stile e quello di Waters, colpendo con le sue ditate le corde del basso con una velocità da capogiro. Per quello che era il brano di apertura di A Saucerful Of Secrets, Pratt replica la voce di Wright e Kemp quella di Gilmour. Let There Be More Light viene chiusa da una sezione strumentale che sembra riproporre i suoni di The Nile Song.

Mason torna a parlare al pubblico, con il suo solito stile ironico e scanzonato. Adesso racconta con una punta di soddisfazione che all’epoca dei Pink Floyd, nonostante ci fosse un gong sul palco, era soltanto il suo ottimo amico e compositore Roger Waters a suonarlo. Adesso di Waters non c’è traccia e questa è finalmente la serata giusta per suonarlo! Il batterista raccoglie così con la mano destra la mazza e comincia a percuotere il gong; è arrivato infatti il momento di Set the Controls for the Heart of the Sun, dall’album A Saucerful Of Secrets del 1968, con la band che prova a ricreare le atmosfere della famosa versione contenuta nel film Live at Pompeii. Si mantengono le gerarchie originali e la canzone viene cantata dal bassista, dunque il microfono viene preso in carica da Guy Pratt che sembra cavarsela egregiamente. Interessante il tappeto sonoro intessuto da Beken, con Mason che sembra ritrovare il giusto passo, mentre dietro di lui Pratt si prodiga a far vibrare poderosamente il gong. Il lavoro di slide è riservato all’ottimo Harris. Sfogando la sua creatività, Kemp prova a dare manforte al tastierista, giocando sul finale con alcuni interessanti effetti elettronici. Belli anche i giochi visivi che accompagnano il brano, con le fiamme che sembrano dar fuoco allo schermo sullo sfondo del palco e le tonalità delle luci mantenute sempre su colori caldi.

Ancora il genio inventivo di Syd Barrett per le due canzoni in programma questa sera. La chitarra distorta di Harris e il basso pulsante di Pratt regalano l’intro pazzesco di See Emily play, riarrangiata con stile moderno e con i testi cantati in coro dalla coppia Kemp-Pratt. Bellissimo vedere la reazione del pubblico italiano, che canta battendo le mani in piena estasi flower power. Interessante poi il finale, diverso da quello inciso dai Pink Floyd nel 1967.

Kemp si avvicina al microfono e conta fino a quattro, per dare il tempo giusto per Bike, il brano di chiusura di “The Piper At The Gates Of Dawn”. Anche di questo strampalato inno alla bicicletta firmato da Barrett non si conoscono versioni live incise dalla band. A sorpresa sul finale viene riproposta la chiusura originale della traccia del 1967, per intenderci quella con i suoni di campanelli, anatre di plastica e altro ancora.

Giusto il tempo di sistemarsi sulle poltrone ed esordisce il famoso giro di basso di One Of These Days, la tarantella rock che il pubblico accompagna col battito sostenuto delle proprie mani. Pratt e Beken sono i protagonisti assoluti della prima parte del brano, compresa la sezione che precede l’esplosione sonora che fa crollare letteralmente l’Arcimboldi, dpve Pratt, Kemp e Beken si dimenano come dei dannati!

Mentre i musicisti lasciano il palco, il pubblico è tutto in piedi a tributare i cinque musicisti, capaci di riportare indietro l’orologio floydiano di ben cinquant’anni. Eccoli là in fila, Harris, Pratt, Mason, Kemp e Beken che salutano i presenti, con Nick e Guy che prima di lasciare il palco azzardano in italiano un timido “grazie mille”. Il momento dei bis non si fa attendere a lungo e la scelta dei due brani in chiusura di concerto sembra ancora una volta azzeccatissima.

Si parte con A Saucerful Of Secrets, la cui prima parte è sostanzialmente una porzione della sezione intermedia di Echoes! A questa sezione dalle forti connotazioni oniriche, fa seguito il drumming di Mason che non è certamente quello degli anni che furono e la sua volontà di velocizzare il ritmo delle bacchette sulle pelli della sua batteria deve fare i conti con i suoi attuali limiti tecnici: invece di suonare in circolo sui tamburi come faceva all’epoca, si limita a percuotere tristemente il rullante. A questa sezione, impreziosita dalle improvvisazioni al pianoforte di Beken, segue l’inizio della classica Celestial Voices, con l’organo in primo piano e la chitarra in stile slide di Harris che duettano tra di loro. Alcune piccole incertezze quando per Kemp arriva il momento della voce celestiale caricata forse con troppo eco, seguita però da un suo ottimo assolo di chitarra che porta a conclusione uno dei classici degli spettacoli dei Pink Floyd dell’epoca. Se a qualcuno in questo momento è venuto in mente Rick Wright, autore di queste bellissime note senza tempo, sarà Pratt a ricordare ai presenti di togliesi il cappello per il genio del tastierista, scomparso ormai già da dieci anni.

Per chiudere quello che è stato con molta probabilità il miglior concerto di questo tour europeo di Nick Mason, le voci di Kemp e Pratt ci fanno risalire sull’astronave che ha aperto il concerto e il batterista-pilota ha deciso di riaccompagnarci personalmente a casa, con la splendida flying machine di Point Me At The Sky, il loro quinto singolo pubblicato nel discembre 1968. Questo veicolo spaziale, dal brevetto propriamente pinkfloydiano, è stato capace di saltellare qua e là nello spazio temporale, portandoci avanti e indietro nella loro storia lunga oramai più di cinquant’anni, in un viaggio interstellare in quella che è anche la nostra Storia.

Crash crash crash crash goodbye, mr Nick Mason…

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Testo: Nino Gatti
Foto pubblicate per gentile concessione di Marco Bozzato