L’intervista di Repubblica a Nick Mason

In occasione dei concerti italiani d Nick Mason, Ernesto Assante di Repubblica ha incontrato a Roma il batterista per una intervista. Mason ha così raccontato il suo ritorno in scena.
L’articolo completo, intitolato “I Pink Floyd erano libertà”, è disponibile tramite questo link.

Mason: “Essenzialmente volevo suonare la batteria di nuovo, venticinque anni di pausa sono molti e mi sembra sia troppo presto per andare in pensione. E quindi ho colto l’opportunità di suonare con degli amici.

Ha scelto il repertorio dei Pink Floyd degli esordi…
“Quando si è creata questa occasione ho iniziato a pensare cosa mi sarebbe piaciuto suonare. Ovviamente la musica dei Pink Floyd, ma non volevo fare né le stesse cose che suonano dal vivo Waters (che lo ha raggiunto a sorpresa sul palco lo scorso aprile a New York, ndr) e Gilmour, e nemmeno fare un repertorio da tribute band. Quindi ho trovato interessante l’idea di riprendere la musica dei nostri inizi e soprattutto l’idea di non suonare quei brani nota per nota, ma con lo stesso spirito”.
Quindi da cosa è partito? Quali sono state le difficoltà nel riprendere brani che non suonava da tantissimo tempo?
“È ovvio che ricordavo bene come si sviluppava la musica all’epoca e allo stesso tempo avevo tutti i riferimenti dei dischi che abbiamo registrato. Ma sapevo anche che l’unico modo per essere realmente fedeli a quel lavoro era tenerne vivo lo spirito di avventura, la voglia di sperimentare, di scoprire cose nuove. Tutto questo ha reso le cose più semplici, perché ho affrontato le cose in maniera rilassata. Ma finché non abbiamo a suonare non mi era chiaro, semplicemente riascoltando i brani, di quanto fossero complesse le cose che realizzavamo all’epoca”.
Era musica d’avanguardia e per molti versi lo è ancora oggi.
“Sì, la cosa interessante è che non si nota quanto tempo sia passato, la forza di quella musica è rimasta intatta, contiene ancora opportunità notevoli di scoprire cose nuove, anche oggi. È vero, eravamo all’avanguardia, ma il mondo era assai diverso e tutto sembrava nuovo. Ma trovo bellissimo che ancora oggi sia possibile, suonando quelle cose, scoprire qualcosa di inedito”.
Già, cosa ricorda dei concerti dell’epoca? Com’era suonare all’UFO Club?
“Ho molti bei ricordi di quei giorni, ma ovviamente dopo tanti anni è difficile capire cosa è vero ricordo e cosa invece si è stratificato con il tempo. Di certo nel 1967 la nostra musica era quindi guidata proprio dalla mancanza di abilità. Non avevamo cose da offrire che non fossero idee e inventiva, cercavamo la nostra identità. Era l’inizio di un viaggio di scoperta, che ci coinvolgeva completamente”.
Il pubblico oggi è cambiato?
“Sì, ma non così tanto. La differenza più grande è che alla fine degli anni 60 la musica aveva più potere, più peso nella vita della gente. Negli ultimi venticinque anni si è svalutata, la gente si è abituata all’idea che debba costare poco o che sia gratis, che ci sia sempre a dovunque, o che sia solo una colonna sonora per altre attività. È un peccato ma è così. Oggi c’è l’intrattenimento digitale, ci sono Netflix e i social media, la gente passa il suo tempo in maniera diversa”.
Un viaggio in cui era coinvolto anche il pubblico.
“Certamente, ma questo è vero in assoluto per tutta l’arte della performance, crei un legame con il pubblico che trasforma la musica stessa. Il pubblico che hai di fronte ti incoraggia a correre dei rischi a fare cose diverse, a improvvisare. Ma questo credo accada sempre, non solo a noi”.
Che tipo di pubblico arriva ai suoi concerti, solo nostalgici o anche giovani curiosi?
“È un mix curioso, ci sono ragazzi che ascoltano i Pink Floyd degli esordi come noi ascoltavamo i grandi del blues, molti giovani musicisti, ma anche tante persone più anziane per le quali la musica è ancora una parte importante della vita”.
Com’è stato per lei passare attraverso fasi diverse della storia dei Pink Floyd, da Barrett a Waters a Gilmour?
“Non c’è molto da spiegare, è stata una transizione naturale in un unico flusso creativo. Quando sei nel centro di questo flusso segui la corrente, pensa a Mick Fleetwood e ai cambiamenti dei Fleetwood Mac o al cambiamento radicale dei Genesis quando sono passati da Peter Gabriel a Phil Collins. Accade, se ami quello che fai continui a farlo”.
Il suo ruolo nella band è stato sempre centrale, anche collaborando alla scrittura dei brani.
“In realtà quando sei in una band sei sempre parte della composizione di un brano, sei nel cuore della formazione della musica, quando provi e improvvisi con gli altri. Essere in una band non prevede necessariamente l’idea di essere compositore nel senso classico del termine, che ti siedi e scrivi, ma sai che senza di te quella musica non esisterebbe nella forma in cui esiste”.
Di certo la musica dei primi anni dei Pink Floyd sfuggiva ad ogni possibile etichetta o categoria.
“Non ci è mai piaciuta l’idea di essere legati a un genere in particolare, ma credo che questo sia vero per ogni musicista. Ci muovevamo liberamente, le cose più idilliache di Syd erano molto lontane da Interstellar ovedrive, ma riuscivamo a conciliarle. Poi ogni cosa nel tempo ha trovato il suo spazio”.
E’ ancora così, anche nei concerti della sua band di oggi?
“La cosa che mi eccita di più è sapere che ogni sera suonerò cose diverse, deliberatamente ci metto cose nuove e diverse, è un piacere infinito”.
Come ha scelto i musicisti della sua band?
“Confesso che non ho scelto io i musicisti della band, loro hanno scelto me. Lee Harris ha suggerito l’idea, ma non a me, io non lo conoscevo, ne ha parlato con Guy Pratt e lui ha detto ‘si, dovremmo farlo’ e ne ha parlato con me. Il fatto che ci fosse Guy mi ha convinto a provare. Gary è mio amico da molti anni, non abbiamo mai pensato di suonare qualcosa insieme, ma quando gli ho parlato del progetto mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere essere coinvolto. E quindi è arrivato anche Dom”.