The Guardian e le 20 migliori canzoni dei Pink Floyd

L’edizione online del quotidiano The Guardian ha pubblicato oggi (11 settembre) un articolo che si focalizza sulle 20 migliori canzoni dei Pink Floyd. L’articolo originale è disponibile qui.
Classifiche che spesso lasciano il tempo che trovano, ho però trovato interessante la scelta delle canzoni e la descrizione delle stesse, per cui eccola qui nella traduzione integrale.

E se la tua testa esplode: le 20 migliori canzoni dei Pink Floyd – classificate!
Cinquant’anni dopo l’uscita di Wish You Were Here, ripercorriamo il meglio della band: dagli anni di Syd Barrett, alla loro difficile rinascita, fino alla reunion finale.
di Alexis Petridis

1. Wish You Were Here (1975)
Il brano più semplice e diretto che i Pink Floyd abbiano mai pubblicato negli anni ’70, forse per questo è stato reinterpretato da artisti diversissimi tra loro: Sparklehorse, Thom Yorke, la metal band Avenged Sevenfold e – sì! – anche Susan Boyle. Oppure è semplicemente perché, dal riff iniziale fino all’assolo finale chitarra-voce scat, è una canzone incredibile. I testi di Waters sono profondamente personali – indirizzati a Barrett, iniziano domandandosi se abbia sbagliato ad abbandonare la musica, per poi sciogliersi in un rimorso sospirato – ma trasmettono una sensazione di perdita e rimpianto che ha un valore universale. C’è anche un calore e un’empatia che mancheranno nei lavori successivi dei Pink Floyd.

2. Time (1973)
È difficile scegliere un momento culminante da The Dark Side of the Moon, ma Time è il brano con il maggiore impatto emotivo. Una riflessione sull’invecchiamento scritta da un ventenne dovrebbe sembrare immatura e speculativa; invece, le parole diventano sempre più significative con il passare degli anni.

3. Comfortably Numb (1979)
The Wall ha venduto 30 milioni di copie, ma continua a dividere le opinioni: capolavoro alienato o monumento insopportabile all’egocentrismo da rockstar? Tuttavia, Comfortably Numb mette d’accordo tutti: il passaggio da strofe nostalgiche (ma vagamente minacciose) a un ritornello estatico (ma inquietante) è esaltante, e l’assolo di chitarra è catartico.

4. Echoes (1971)
Il brano definitivo dell’era post-Barrett e pre-Dark Side. Echoes è una serie di frammenti musicali sapientemente assemblati – anche se non si direbbe: dall’intro glaciale al trionfale finale, i suoi 23 minuti scorrono con naturalezza. Chitarre liriche, strofe malinconiche, interludi ambient inquietanti: c’è tutto.

5. Astronomy Domine (1967)
I Pink Floyd psichedelici di Barrett al massimo della potenza: grezzi e viscerali, come una garage band proveniente da Marte. La chitarra di Barrett è incredibilmente creativa, i testi traboccano riferimenti a pianeti, fumetti e Shakespeare in un flusso lisergico. Ha quasi 60 anni, ma è ancora elettrizzante.

6. Shine On You Crazy Diamond (Parti 1–5) (1975)
I Pink Floyd sono noti per le loro liti interne, ma una volta funzionavano come un’unità perfettamente affiatata. L’intro strumentale è un capolavoro di atmosfera: le tastiere di Wright e la chitarra malinconica di Gilmour creano il contesto ideale per i testi disperati di Waters.

7. Set the Controls for the Heart of the Sun (1968)
Il segnale più evidente che la band poteva sopravvivere senza Barrett, contenuto in A Saucerful of Secrets. Lungo, in parte improvvisato, ipnotico (e di grande influenza per il nascente krautrock), ma non certo musica per rilassarsi: è troppo inquietante e disturbante.

8. One of These Days (1971)
Dopo anni incerti, i “nuovi” Pink Floyd trovano la loro strada con Meddle. Il brano d’apertura, costruito attorno al basso eco di Waters, è energico, sicuro di sé, con un groove minaccioso. Vuoi sentire l’omaggio dei Depeche Mode? Ascolta Clean su Violator.

9. See Emily Play (1967)
Chi ha visto i primi Pink Floyd dal vivo sostiene che i dischi non rendessero giustizia alla loro intensità. Ma importa poco, quando i pezzi pop erano originali e creativi come See Emily Play: tre minuti perfetti di esperienza psichedelica, artefatto definitivo dell’estate dell’amore.

10. Us and Them (1973)
Basato su un pezzo di Wright scartato dalla colonna sonora di Zabriskie Point perché “troppo triste”, Us and Them è intriso di sconforto: il ritornello sembra il tentativo di reagire, per poi ricadere in una torpida apatia. Ma è anche di una bellezza straziante.

11. Jugband Blues (1968)
L’ultima testimonianza dei Pink Floyd originali: un oscuro epilogo dell’estate dell’amore, il primo vero segnale dei danni psicologici dell’LSD nella musica rock. Barrett racconta il proprio crollo mentale con voce spettrale, mentre una banda dell’Esercito della Salvezza esplode in un caos improvvisato. Sconvolgente e straordinario.

12. Dogs (1977)
Animals è un disco duro ma potente: il tono cupo e sprezzante rappresenta il disagio e la frustrazione degli anni ‘70 tanto quanto il punk. Dogs incarna questo spirito: synth stridenti, testi misantropi e disperati, e assoli di Gilmour tra i più incendiari.

13. Brain Damage / Eclipse (1973)
Anche se lasciò la band nel 1968, Barrett sembra aleggiare sul medley finale di Dark Side of the Moon. Le strofe inquietanti e infantili di Brain Damage ricordano lo stile di Barrett; i testi alludono al suo declino. Eclipse si chiude con la voce del portiere degli Abbey Road Studios: “non c’è davvero un lato oscuro della luna”.

14. Run Like Hell (1979)
Il rock duro non è mai stato il punto forte dei Pink Floyd – vedi l’inguardabile The Nile Song (1969) – ma Run Like Hell fa eccezione: claustrofobica e paranoica, guidata da un ritmo disco incalzante e la chitarra eco di Gilmour (ispirata ai violoncelli dei Beach Boys in Good Vibrations).

15. Fat Old Sun (1970)
Le sperimentazioni corali di Atom Heart Mother attirano l’attenzione, ma il vero gioiello è nascosto sul lato B: Fat Old Sun è un dolce lamento, malinconico e molto inglese, che suona come il country rock filtrato attraverso un pomeriggio in Parker’s Piece.

16. Louder Than Words (2014)
Ultima traccia dell’ultimo album in studio (The Endless River), è – di gran lunga – il miglior pezzo dell’era post-Waters: elegiaca e splendida, con testi di Polly Samson che suggeriscono che la musica dei Floyd supererà perfino le loro liti pubbliche. Ironia vuole che pochi anni dopo abbiano ripreso a insultarsi. Più le cose cambiano…

17. Cymbaline (1969)
La colonna sonora di More spazia dal proto-metal al flamenco fino agli assoli di bongo. Ma Cymbaline – con i suoi ritornelli ariosi e il finale dominato dalle tastiere di Wright – è splendida e quasi profetica: “Un’ansia che sale lungo la spina dorsale come un treno” sembra una frase uscita da Dark Side, solo con quattro anni d’anticipo.

18. Grantchester Meadows (1969)
La parte in studio di Ummagumma è un caos – una band alla disperata ricerca di una direzione – ma contiene un capolavoro: l’evocazione bucolica di Waters dei prati lungo il fiume Cam, una calma pastorale che nasconde un’inquietudine latente, come se qualcosa di sinistro si celasse tra i cespugli.

19. Wot’s … Uh the Deal? (1972)
Spesso oscurato dagli album che lo circondano, Obscured by Clouds è forse il disco più sottovalutato dei Floyd: ricco di esperimenti strumentali, anticipazioni di Dark Side, e questa ballata splendida, un po’ beatlesiana, rovinata solo da un titolo sciocco.

20. The Gunner’s Dream (1983)
The Final Cut è carente di melodie memorabili, pieno di vocalizzi sofferti e pessimista all’estremo, tanto da far sembrare tutti gli altri album dei Floyd allegri. Ma The Gunner’s Dream riesce a emergere, grazie a una melodia fragile e commovente.

Nino Gatti