“Wolfpack” secondo Robyn Hitchcock

Sul sito ufficiale di Syd Barrett è stato diffuso alle 20:48 di oggi (13 febbraio) un articolo firmato da Robyn Hitchcock che riguarda la canzone “Wolfpack”, contenuta nell’album “Barrett” del 1970. Robyn Hitchcock è un cantautore, musicista e artista britannico noto per la sua carriera solista e come frontman dei Soft Boys. Nel post si legge: «Siamo lieti di presentarvi un articolo esclusivo della leggenda della musica Robyn Hitchcock.
Fan ossessivo di Syd Barrrett, Robyn esplora l’oggetto della sua ossessione attraverso il prisma della canzone Wolfpack di Syd.
Buon divertimento!»

L’articolo di Hitchcock è stato inserito nella sezione “Stories Behind The Songs” del sito ufficiale di Syd Barrett.

«Ero in piedi su una scala mobile a Londra, scendendo nella metropolitana con una copia della rivista Rolling Stone. Era la fine del 1971 e non ero felice. A scuola la vita mi era andata bene, ma nel mondo stavo naufragando. Una ragazza drogata – un’altra ragazzina della classe media persa come me, solo più alla deriva – cercò di parlarmi, con le dita ingiallite dal fumo di tabacco che si aggrappavano al corrimano. La guardai per autoproteggermi. “Mio Dio”, disse: “Perché mi fissi in quel modo?”. Si allontanò e io mi avviai verso l’orrore profondo della Linea Nord.
Ma la mia mente era già altrove. Su una pagina interna di Rolling Stone avevo visto un titolo: “The Madcap Who Named Pink Floyd” (Il pazzo che ha dato il nome ai Pink Floyd) e sotto una foto impressionante del saturnino e spaventato Syd Barrett. “A seconda di chi parla, Syd Barrett è morto, in prigione o è un vegetale. In realtà è vivo, e più confuso che mai…” iniziava l’articolo. Continuai a leggere, affascinato. Sapevo chi era Barrett, naturalmente, o lo era stato – la sua musica con i Pink Floyd era la mia parte preferita: ma non avevo mai pensato di seguirlo oltre. I miei amici più “groo” dicevano che i dischi solisti di Syd erano “deludenti”.
Mi misi all’ingresso del binario e affondai ulteriormente la mia attenzione nell’articolo. L’articolo ritraeva un giovane brillante e di successo che aveva perso lo slancio ed era tornato a casa della madre, nel sobborgo di Cambridge, emergendo dalla cantina in cui viveva per l’intervista (che si rivelò essere l’ultima che rilasciò). Non conoscevo ancora i dettagli del suo esaurimento, della sua espulsione dai Pink Floyd e della sua caduta nell’inerzia. Il suo giro di parole era impressionante: “Sto percorrendo un sentiero a ritroso… pieno di polvere e di chitarre”… ‘Cammino molto, 8 miglia al giorno: si vedrà, ma non so come’. Barrett parlava per frammenti illuminanti. “Guardate quelle rose… Naturalmente, una volta che sei coinvolto in qualcosa…”. Lo scrittore parlò della bellezza spettrale e poetica di Syd; e poi descrisse come, in un impeto di entusiasmo, il poeta fantasma gli mostrò un manoscritto ben battuto delle sue liriche. Il preferito di Syd, a quanto pare, era “Wolfpack”, dal suo secondo (e ultimo) album da solista. Il mio treno entrò nella stazione della metropolitana e ne uscì di nuovo. La ragazza drogata si muoveva su e giù per la banchina, occupandosi dei passeggeri. Io continuavo a leggere, magnetizzato:

“Beyond the bar winds 
Of the reflecting electricity eyes, tears 
Life that was ours grows sharper and stronger away and beyond;
Short wheeling, fresh spring 
Gripped with blanched bones 
Moaned, magnesium proverbs and sobs.
Howling the pack in formation appear
Diamonds and Clubs, light misted fog of the dead 
Waving us back in formation the pack 
In formation.”

Ero preso dalla voglia di fare. Era questo. Per me Syd Barrett costituiva una tripletta con Bob Dylan e Captain Beefheart. Questo era il senso dei testi rock: poteva essere tutto, portato all’estremo. Il modo in cui Barrett confondeva i lupi con le carte da gioco era abbastanza chiaro; ma l’impeto, la mania, la pura e semplice demolizione dell’intera canzone era più che magica: riecheggiava ciò che provavo mentre mi avviavo verso i 19 anni.
In breve tempo comprai l’album “Barrett” con il disegno di Syd degli insetti in copertina, e vi sparii dentro. È discutibile se ne sia mai uscito completamente. Proprio come avevo assorbito “Visions of Johanna” di Dylan entrando nell’adolescenza, ne uscii diventando virtualmente “Wolfpack”. Dovrebbero esserci più canzoni come questa, pensavo, e ho fatto del mio meglio per scriverle.
Ma posso solo esprimere me stesso – anche se posso abitare le canzoni di Syd abbastanza facilmente – e, fortunatamente, non ho mai vissuto un esaurimento psicotico. A occhio e croce, questa canzone sembra una delle ultime che riuscì a scrivere, o almeno a finire. Come nel caso di “Visions Of Johanna”, l’intensità surreale di “Wolfpack” si accordava con ciò che era già dentro di me; inoltre, poneva l’asticella in alto, mi dava qualcosa a cui mirare – e da mancare, ovviamente.
C’è una verità che è evocata dalle parole, ma che si trova al di là di esse.
“All-enmeshing, hovering” – davvero. Grazie Mr B, ovunque tu sia andato…

(Robyn Hitchcock)

Nato il 3 marzo 1953 a Londra, Hitchcock è celebre per il suo stile musicale eclettico, che mescola pop psichedelico, rock, folk e new wave, con testi che spaziano tra il surreale, l’assurdo e il poetico.

Negli anni ’70 e ’80, Hitchcock ha avuto una notevole carriera con i Soft Boys, la band che lo ha lanciato sulla scena musicale internazionale. Successivamente ha intrapreso una carriera da solista, caratterizzata da album acclamati dalla critica come I Often Dream of Trains e Eye. Con una lunga discografia che spazia dal folk psichedelico alla musica più sperimentale, Hitchcock è considerato una figura influente nel panorama musicale alternativo.

Famoso anche per il suo spirito eccentrico e il suo umorismo sottile, Robyn Hitchcock ha continuato a mantenere una solida base di fan, rispettato sia per la sua maestria nei testi che per la sua abilità nel creare melodie avvolgenti e insolite.