Roger Waters “Is This The Life We Really Want?” – La recensione

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Che cosa ha fatto Roger Waters negli ultimi 25 anni? Il suo precedente lavoro in studio “Amused To Death” è targato 1992, poi una lunga pausa fino al 1999, quando è tornato in tour dodici anni dopo i concerti di “Radio KAOS”. Grazie alla sua ritrovata voglia di suonare dal vivo ha messo su spettacoli sempre più importanti dal punto di vista visivo, dai primi suonati nei palazzetti fino a quelli ospitati nei grandi stadi, dove ha proposto una versione ampliata di “The Wall”. 18 anni di tournée quasi ininterrotta, dal 1999 ad oggi, durante i quali ha rivendicato e si è ripreso la paternità artistica di gran parte delle canzoni e delle trovate sceniche del repertorio dei Pink Floyd. L’unica vera pausa intorno al 2005, quando Waters ha deciso di completare e di dare alle stampa il doppio cd con la famosa opera “Ça Ira”.

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Nelle sue recenti interviste Roger Waters racconta di non aver mai avuto veramente bisogno di incidere un nuovo disco. Capita a tutti gli artisti di prendersi una pausa, anche se questa volta i fan avevano perduto del tutto le speranze di poter ascoltare un nuovo lavoro in studio. Nel tempo libero Roger Waters ha continuato a comporre nuove canzoni – gli artisti si sa non ne possono fare a meno – diverse delle quali sono state anche registrate e pubblicate in varie occasioni. Quest’improvviso risveglio discografico sembra essere il preludio per un nuovo disco che potrebbe essere realizzato a breve. Waters afferma di avere già tante nuove canzoni pronte per essere registrate, questa volta in tempi meno lunghi e sicuramente con un produttore diverso da quello utilizzato per questo suo nuovo album.

Mark Fenwick, il manager di Waters, spiega i motivi per cui ha scelto di tornare soltanto adesso: “Roger ci pensava da tempo, ha cominciato a registrare delle cose negli anni ’90, credo che il successo trionfale dei suoi tour l’abbia sorpreso e convinto a fare nuova musica. Ma ha voluto aspettare di avere qualcosa da dire”. Roger Waters torna così con un nuovo disco e lo fa proprio nel momento in cui il mondo sembra avere bisogno di ascoltare e far proprie le parole cantate nelle sue tracce. Quelli che si aspettavano un artista remissivo e calmo, pronto a godersi la vecchiaia con serenità hanno sbagliato di grosso. Come hanno sottolineato i giovani musicisti e i tecnici che hanno collaborato con lui per questo nuovo lavoro, come il fonico Sam Petts-Davies, Waters ha “lo spirito e l’energia di un diciassettenne”.

L’idea del nuovo disco parte da un radiodramma intitolato “Is This The Life We Really Want?” sul quale Roger Waters stava lavorando qualche tempo fa. Il musicista ricorda: “Avevo scritto un radiodramma in cui un vecchio irlandese portava il nipote in un giro del mondo immaginario per trovare risposta ad alcune domande fondamentali”. Waters presentò al produttore Nigel Godrich quelle demo, missate tra loro in una bozza di lavoro già concluso su chi lavorare. Godrich, che era stato chiamato dal regista Sean Evans per supervisionare il missaggio delle musiche del film “Roger Waters The Wall”, ascoltò quella demo e chiese a Waters se avesse voglia di farne un disco, idea che in quel momento Waters non aveva preso minimamente in considerazione. Partendo da “Déja vu”, la prima canzone registrata per il nuovo album, ha avuto inizio il lavoro in studio che ha portato al nuovo disco. Waters ricorda che dalle sue demo originali il produttore Nigel Godrich ha conservato solo il brano iniziale e quello finale.

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Al centro del nuovo disco c’è l’Uomo e un accorato invito che non possano prevalere l’indifferenza e l’individualismo di questi primi anni del secondo millennio. Qualcuno potrebbe obiettare che sono temi già toccati fin dall’epoca dei Pink Floyd. La novità arriva però dall’autore, che oggi è nel pieno della sua maturazione personale ed artistica ed è capace di scrivere i testi in modo asciutto e diretto, componendo musiche che fanno vibrare il cuore di nuove emozioni. Per potersi concentrare sulla scrittura delle canzoni, Waters si è affidato ad uno dei produttori più intelligenti della nuova generazione. Si tratta di Nigel Godrich, la cui importanza nel suono dei Radiohead equivale a quella di George Martin nei Beatles. È lui l’uomo dietro i lavori più significativi della band di Thom Yorke e anche degli straordinari album in studio di gente come U2, Beck e di Sir Paul McCartney. Roger Waters: “Nigel ha fatto un ottimo lavoro come produttore, penso che sia proprio un bel disco”.

Godrich, nato nel 1971, anno in cui i Pink Floyd intraprendevano il percorso musicale che da “Meddle” li avrebbe portati direttamente al successo mondiale di “The Dark Side Of The Moon”, è notoriamente un appassionato dei Pink Floyd ed è riuscito a tirar fuori dalla penna dell’exPink Floyd dodici canzoni, essenziali e crude come poche volte era accaduto nella sua storia. Di lui Fenwick afferma: “Sa più cose Nigel dei Pink Floyd che lo stesso Roger”. Una garanzia.

Roger è stato molto diretto e politico ricorda Nigel – i Radiohead sono probabilmente un po’ più cerebrali, McCartney qualcosa di completamente diverso. Forse con Paul e Roger, ho dovuto spingerli a scrivere. Una cosa molto interessante è che sono tutti e due bassisti. I bassisti in genere sono ottimi autori perché ragionano in termini di blocchi e accordi”.

Lo stile negli arrangiamenti di Godrich è riconoscibilissimo ma il suo contributo non si è limitato soltanto a quello che sa fare meglio. È riuscito a distillare l’essenza del suono dei Pink Floyd e a inserirla delicatamente con una serie di sprazzi sonori e richiami alle atmosfere delle loro opere più famose, in una sorta di continuo ma delicato flashback che i veri appassionati della band apprezzeranno senz’altro. Ci sono alcune similitudini con “Mother” o “Pigs On The Wing”, che risultano inevitabili in quanto Waters ha scelto di suonare accordi simili alle due canzoni citate utilizzando la chitarra acustica.

Questo album non è mai stato pensato come un altro “The Dark Side Of the Moon”, perché quello è già stato fatto – afferma Godrich – Ma io sapevo che potevo dare a Roger una struttura che gli permettesse di comunicare le sue idee. L’idea era di dargli un riavvio simile a quello che ‘Il risveglio della forza’ ha ridato ai fan di Star Wars. Presentare la realtà in modo onesto usando una palette familiare, che la gente conosce e per cui si emoziona”.

Waters ha la sua visione del produttore: è un fan, ha idee molto forti su come possano funzionare i dischi. È molto bravo a concentrarsi. C’erano alcune cose che avrei fatto in modo completamente diverso. Ho dovuto star lì con la bocca chiusa, che è un grande sforzo per me. Non sono sicuro che lo avrei fatto di nuovo, ma sono contento di averlo fatto questa volta”.

Roger Waters si è rivolto ancora una volta all’idea di un concept, un tema capace di legare tra loro le canzoni, ma in questo caso non si tratta di un argomento unico. In primo piano c’è la crisi dell’uomo del secondo millennio, un condizione che affligge i popoli di tutto il mondo e che mette a repentaglio la vita di noi tutti, fino a dare una risposta alle possibili soluzioni. In una intervista al New York Times ha così presentato questo nuovo album: “È un viaggio che parla della natura trascendentale dell’amore. Di come l’amore ci può aiutare a passare dalle nostre attuali difficoltà a un mondo in cui tutti possiamo vivere un po’ meglio”.

È sicuramente il lavoro in cui Waters ha colpito maggiormente nel segno nella sua lunga carriera, un disco figlio che dimostrala sua piena consapevolezza di ciò che sta accadendo nel mondo. Semplificando e concentrando i suoi concetti e le sue emozioni, l’artista è riuscito a tradurle in note e parole essenziali, senza troppi fronzoli e dalla durata adeguata. I testi sono tra i migliori da lui mai scritti, immediati e meno prolissi del solito. Le musiche e i relativi arrangiamenti sono semplificati al massimo, adeguando il tutto alla velocità del periodo storico che stiamo vivendo. Il titolo del disco pone una domanda: “È questa la vita che vogliamo davvero?”. La risposta auspicata non solo da Roger Waters è “Assolutamente no!”.

L’album si apre con un suono di marcata provenienza pinkfloydiana. Quel battito del cuore che apriva i primi solchi del loro disco più famoso, “The Dark Side Of The Moon”. Sono rimandi, citazioni leggere, quasi come tante immagini del passato incorniciate e disposte casualmente sulle mura dei corridoi della propria memoria. Waters si è affidato spesso nei suoi lavori a temi musicali che ricorrevano in diverse canzoni dello stesso disco, oppure a frasi ripetute in modo tale da creare un legame tra le diverse tracce dello stesso. Questa volta l’artista si è divertito anche a citare spesso frasi dal suo passato nei Pink Floyd e nei testi del nuovo album troviamo “electronic eyes” (da “The Final Cut”), “wish you were here”, “I’m coming home” (da “Hey you”) e “breathe in the air” (da “Breathe”).

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Durante una presentazione alla stampa del nuovo lavoro, Mark Fenwick ha esortato l’ascoltatore ad approcciarsi all’ascolto in modo differente: “Questo disco è frutto di due anni e mezzo di lavoro. Va sentito come si faceva una volta, quando la musica era Musica”. Mettiamoci dunque in poltrona e lasciamo partire il nostro impianto stereo, con la copertina del disco tra le mani, nel tentativo di scovarne tutti i segreti nascosti.

La sorpresa è che non ci sono assoli di chitarra, marchio di fabbrica di tantissima produzione pinkfloydiana, quasi a voler tagliare con il passato, senza dover necessariamente competere con lo strumento principe nella storia dei Pink Floyd, la chitarra del suo “contraltare” storico David Gilmour. Nonostante l’assenza di chitarra solista, la musica del nuovo disco di Waters non si discosta dal rock classico ma è modulata su tempi rilassati, al limite delle ballate, sulle quali il produttore ha inserito opportunamente il suono del pianoforte e gli archi di radioheadiana memoria. Questi suoni sono contrapposti alla voce matura e quasi roca di Roger Waters, che spesso poggia comodamente le sue corde vocali su quelle della chitarra acustica, suonata in uno stile simile a quello del suo idolo Neil Young.

I testi delle nuove canzoni toccano preoccupazioni e problematiche che tormentano quotidianamente la vita di tutti noi. L’approccio ai temi da trattare è stato raccontato da Nigel Godrich: “Ci è venuta l’idea della contrapposizione tra le vite che viviamo e le cose terribili che stanno accadendo sullo sfondo che noi dobbiamo cambiare perché dobbiamo farlo, altrimenti piomberemmo in uno stato di depressione terminale. Immagini di gente che prende il sole in spiaggia accanto a quelle di rifugiati zuppi d’acqua, sempre in spiaggia, la natura automatizzata delle nostre vite. Sotto a tutto ciò, alla radice, c’era questa idea di una presenza femminile nella sua vita. Ci sono volute molte conversazioni  un sacco di musica e anche un sacco di lavoro per tirare le fila, che provenivano da diverse direzioni. E così è stato divertente!”.

C’è il pericolo sempre crescente della guerra e delle nuove tecnologie che la rendono se possibile ancora più tecnologica e disumana, come i droni utilizzati a distanza capaci di colpire “una donna ai fornelli che cuoce pane e riso” (dalla canzone “Déja vù”). C’è il dramma dei rifugiati, stranieri che arrivano nei nostri paesi conoscendo spesso ostilità e razzismo, oppure una tragica fine in mare. Ci sono gli abusi sui più deboli e uno sguardo preoccupante ai problemi dell’ambiente e del riscaldamento globale. C’è il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ampiamente sbeffeggiato da Waters nei recenti concerti alla fine del 2016, quando sul classico maiale gonfiabile che volteggia sulla testa degli spettatori campeggiava la scritta “Trump is a pig”, mentre sullo schermo vengono proiettate enormi immagini irriguardose del nuovo Presidente degli Stati Uniti.

Nonostante Waters sia da diversi anni cittadino americano, nel disco prende posizione contro la Brexit, sentendo in maniera particolare quello che sta accadendo nel suo paese. Roger Waters accusa inoltre il capitalismo e la società che sta decadendo, come già gli era capitato quarant’anni fa con “Animals”. Spostando la sua preoccupazione non soltanto alla società inglese ma a tutto il mondo. Waters non punta il dito soltanto nei confronti della politica ma guarda direttamente all’effetto che le decisioni di certa classe di potere peseranno sulle vite dei cittadine, in particolare nei confronti della fasce più deboli.

C’è infine una sorta di inno alla resistenza nei confronti dei “poteri costituiti”, un forte invito a compattarsi, ad aprirsi uno all’altro, a vivere la compassione nei confronti di chi soffre e di chi ha bisogno, una esigenza umana più che cristiana che dovrebbe essere alla base della nostra esistenza. Il mondo contemporaneo vive una grande confusione, diviso tra una tecnologia esasperata e una vita vissuta quasi totalmente sui social, mentre continua a scorrere il sangue delle vittime delle nostre guerre “inevitabili”, non importa se a morire siano donne e bambini innocenti e non più soldati.

Gran parte delle canzoni dell’album sono state scritte da Roger Waters durante la lavorazione del disco, spinto ed incoraggiato dal suo produttore. Le registrazioni sono avvenute agli United Recording Studios, Electric Lady Studios, Wack Formula Studio e Five Star Recording.

Per Roger Waters è solo un vanto quell’adesivo sulla confezione del nuovo cd che avvisa l’acquirente del “contenuto esplicito” e delle “parole forti” presenti nel disco. Non accadeva dai tempi del disco The Final Cut”. Per coerenza, metà dei programmi televisivi di tutto il mondo non dovrebbero mai andare in onda in quanto contengono parole ed immagini molto più spinte e volgari di quelle contenute in questo disco.

La copertina infine, pare essere ispirata all’opera di due artisti, Emilio Isgrò e Anna Rosa Faini Gavazzi, il quale utilizzava la cancellatura in modo creativo, rivelando significati che le altre parole avrebbero celato.

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LE CANZONI

 

When We Were Young

Strumentale, introduce al disco con un classico collage sonoro della voce di Waters che parte incomprensibile e che diventa sempre più chiara, mentre sullo sfondo c’è il suono di un basso e il ticchettio di un orologio. Il protagonista sembra essere colto negli attimi in cui ha qualcosa da raccontare e la sua voce, i suoi pensieri, prima confusi, diventano sempre più nitidi. Il brano, nella tradizione watersiana, è collegato al successivo.

 

Déja vu

La canzone era stata scritta da Waters alla fine del tour di “The Wall” del 2013. Con il titolo “Lay down Jerusalem (If I Had Been God)” era stata presentata dall’artista al Parlamento Europeo di Bruxelles il 25 settembre 2014, in una performance di quasi dodici minuti.

È la canzone cardine dell’album, quella dalla quale è partito tutto il progetto. È quasi una preghiera atea, la visione del mondo come lo ha concepito Dio e come è diventato a causa degli uomini, rei di non essere riusciti a preservarlo meglio. Waters immagina quello che egli avrebbe cambiato nella storia dell’umanità se fosse stato Dio. Ovviamente non va visto come un delirio di onnipotenza dell’artista, quanto una sua lucida critica e denuncia agli errori commessi dall’uomo fino ad oggi. Quando canta “Se fossi stato Dio credo che avrei fatto un lavoro migliore” c’è da credergli ciecamente che sarebbe andata veramente così!

Waters: “Viviamo uno stato di guerra perpetua ed è stato tutto normalizzato. La mia convinzione è che non è questa la vita che vogliamo, ma la propaganda spinge tutto. Ecco perché il presidente Trump è così importante per questa storia. È questa la vita che vogliamo? Vogliamo una vita in cui non abbiamo nessuna responsabilità tra di noi?”.

Il testo recita: “Se fossi un drone / avrei paura di trovare qualcuno a casa / Forse una donna in cucina / che cuoce il pane, prepara il riso o semplicemente bolle alcune ossa”, uno spaccato della povertà e della miseria di alcuni popoli che hanno così poco da mangiare mentre un costosissimo drone militare in un secondo può distruggere la loro misera vita.

I responsabili dei disastri attuali sono individuati anche nelle banche: “il tempio è in rovina / i banchieri ingrassano”. ‘Déjà Vu’ ricorda il tema di ‘Pigs on the Wing’, diviso tra le paure delle nuove guerre iper tecnologiche e la nostalgia dell’amore, quasi un riparo per l’uomo schiacciato dall’orrore della guerra sempre più violenta e spietata.

The Last Refugee

All’inizio della canzone si possono ascoltare alcune voci dai notiziari radiofonici del passato della BBC come le News oppure Shipping Forecast che annuncia che l’anno 1970 sta per diventare 1971 (la voce recita “And it’s the end of broadcasting for thursday, the end of broadcasting for 1970”). Per quale motivo Waters fissa la data del 1971? Per caso è l’anno in cui i Pink Floyd compiono la loro svolta commerciale?

Il ritmo della batteria riprende in modo palese “Five Years” di David Bowie. Tutto il brano è sostenuto da questo ritmo, lampi di tastiera e sprazzi di pianoforte, una morbida base sulla quale la voce di Waters è inizialmente dolce, poi forte e poi quasi urlata in un valzer emozionante e struggente.

Il tema dei migranti ha ispirato questa canzone grazie e soprattutto all’immagine del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni annegato nel 2015, il cui corpicino fu ritrovato senza vita su una spiaggia turca, una foto che ha straziato il mondo intero, diventata il simbolo della crisi dei migranti in Europa.

La canzone parla ancora della Donna e dei suoi desideri infranti dal corso della vita. Nel bellissimo video promozionale della canzone, pubblicato il 18 maggio 2017 e realizzato da Roger Waters e Sean Evans, una donna si ritrova a sognare in un locale sudicio. Immagina di essere una ballerina, indossa un anonimo parka verde e una lunga sciarpa per coprirsi dal freddo, con una vecchia radio al suo fianco. Le immagini si contrappongono a quelle di una ballerina andalusa e le mani delle due donne sembrano muoversi con lo stesso desiderio di libertà. La ragazza viene ripresa dall’alto mentre prova a dormire, rivelando tutto quello che ha in quel momento: alcuni cartoni su cui dormire, una coperta impolverata, una valigia, due borsoni e una pentola arrugginita dove brucia della legna per difendersi dal freddo. La donna abbraccia una bambola e con il pensiero va su una spiaggia dove si avvicina sua figlia che disegna sulla sabbia con un ramoscello di legno. Abbraccia lo zaino della bambina e il pensiero torna a quella spiaggia dove non c’è più la piccola ma solo quella bambola di pezza che giace sul bagnasciuga. Sullo sfondo una nave che si allontana quale simbolo di speranza e nel caso dei migranti si trasforma in un simbolo di morte. Molto bello e toccante.

Picture That

Critica feroce e senza appello ad una società fondata sui social network e sull’importanza dei “followers”. Waters aveva già esternato il suo fastidio durante i suoi recenti concerti, quando aveva denunciato quanti lo filmavano sul palco e che non seguivano il concento ma solo la ripresa dal telefono. La canzone sembra inizialmente la più debole del disco ma i successivi ascolti le rendono giustizia. “Picture That” ricorda “Sheep” (da “Animals”) ed è quasi una risposta al testo della canzone incisa dai Pink Floyd quarant’anni prima. Le pecore hanno preso oggi consapevolezza di quanto rimane dell’indifferenza del passato. Intorno è tutto in rovina e non serve fotografare compulsivamente quanto accade nel mondo quando manca la consapevolezza delle sorti del nostro futuro.

Waters ha scritto la canzone partendo dalla parola “picture” che si ripete. C’è un riferimento alla politica, come nella frase “Imagine a leader with no fucking brains”, che Waters ha scritto subito dopo le elezioni presidenziali dello scorso anno. La stoccata a Trump – ma è valida per molti altri leader mondiali – è tutta in questa strofa “Immagina un leader senza un cazzo di cervello”, sottolineata anche dalla foto del Presidente americano a pagina quattro del libretto del cd, occhi e bocca coperte dalle strisce nere, ormai simbolo di questo disco e la frase che copre il suo volto “a leader with no fucking brains”.

Broken Bones

La canzone era stata presentata per la prima da Roger Waters dal vivo il 30 ottobre 2015 a Sag Habor (New York) con il titolo “Safe And Sound”.

In “Broken bones” Roger denuncia sia la società americana che quella europea, accusando quest’ultima di essersi adeguata allo stile di vita a stelle e strisce e di non aver saputo cogliere l’insegnamento della Seconda Guerra Mondiale. Invece di sentirsi libera, l’Europa del dopoguerra ha copiato lo sviluppo capitalistico della società americana, facendosi manovrare dai media. Broken bones” canta la piena crisi di coscienza dell’uomo attuale., spezzato e con le ossa rotta, che prende atto dei disastri realizzati nei confronti del pianeta, condannandolo stile di vita vuoto e senza valori del narcisismo moderno.

Nel testo Waters si oppone allo status attuale e canta: “Non possiamo portare indietro l’orologio / Non possiamo tornare indietro nel tempo / Ma possiamo dire, ‘Vaffanculo, non faremo ascoltare le vostre stronzate e menzogne”.

Il produttore ha lasciato in apertura del brano la voce di Waters che si schiarisce prima di cantare, quasi a voler umanizzare l’artista nel momento in cui sta registrando la sua canzone. Mi viene in mente quanto fecero Waters e Gilmour nell’album “The Madcap Laughs” di Syd Barrett da loro prodotto nel 1969, quando in alcune tracce lasciarono su disco alcuni difetti ed errori effettuati dal loro amico. È anche l’unica canzone del disco dove c’è un timido accenno ad un assolo di chitarra.

Is This the Life We Really Want?

Una parte del testo della canzone faceva parte di una poesia che era stata letta da Waters in pubblico il 30 ottobre 2015 a Sag Habor (New York).

All’inizio della canzone ascoltiamo la voce di Trump da una conferenza stampa che dimostra la sua arroganza ma se vogliamo anche la sua delirante e lucida follia: “Siete la CNN. Intendo, sono storie dopo storie dopo storie, è brutto. Ho vinto. Ho vinto. E l’altra cosa, caos. Non c’è caos. Zero caos. Noi corriamo. Questa è una macchina che va a meraviglia”.

La poesia con lo stesso titolo della canzone era stata scritta da Roger Waters alcuni anni fa, come ricorda in questa intervista: “C’è un monologo e per me quelli erano destinati a rimanere i versi di un lungo sfogo che ho scritto nel 2008. È bello che sia sul disco, mi piace. È poesia, non è nato come testo di una canzone, non credo che sarei mai riuscito a scrivere un monologo, è quasi come il rap! È una dissertazione, non è come un testo normale, è come un parlato”.

La definizione di Waters nei confronti di Trump non lascia dubbi: sciocco. Waters: “Quell’uomo è pazzo. E quando lo chiamo “nincompoop”, sciocco, lo faccio a ragion veduta: deriva dal latino non compos mentis, incapace di intendere e di volere. Gli si addice”. Canzone cupa, critica, di denuncia ma la colpa è di tutti perché viviamo nella paura, governati dalla paura, indifferenti al dolore degli altri, mentre il valore delle nostre vite è quasi pari a quello delle formiche.

Waters: “È interessante che per “Is This The Life We Really Want?” sia nata prima la musica del testo. Ci ho messo tanto tempo, perché è molto difficile per me legare un testo a una musica preesistente. Su insistenza di Nigel, mi sono seduto in una stanza con gli altri musicisti, mi hanno dato un basso e poi: “OK, registriamo, chi ha scritto gli accordi? Pronti? Via!”. Joey ci ha dato il tempo e quella è l’unica take: l’unica take di noi quattro che suoniamo insieme. Ho suonato il basso su quella canzone solo una volta. Inizialmente ero reticente e poco convinto, ma Nigel ha molto insistito e ne sono felice. È venuta proprio bene: è proprio bella! Poi ho dovuto decidere il tema della canzone ed è stato lì che ho pensato: “Aspetta! C’è una vecchia poesia che forse potrei usare”. A questa poesia tengo molto. Ci tenevo nel 2008 e ci tengo oggi. Ed è così che il brano è nato”.

Bird In A Gale

Difficile estrarre un brano preferito da questo disco, tanto è compatto e denso. Se dovessi scegliere una canzone la scelta cadrebbe su “Bird In A Gale”, capace di evocare il passato glorioso dell’epoca dei Pink Floyd ma anche alcun canzoni del repertorio dei Radiohead. Il clima sembra riportare alla sezione centrale di “Dogs” (1977) ma ci sono anche le atmosfere sinistre di “Welcome To The Machine” (1975), mentre le voci iniziali raccolte dai giornali radio rimandano alla colonna sonora realizzata nel 1986 da Roger Waters per il film d’animazione “When The Wind Blows”. Anche in questo brano si rintraccia un accenno di assolo di chitarra, ferma su tonalità distorte e oblique, quasi lontana e soffocata dagli altri strumenti del missaggio. La voce di Waters sembra cantata attraverso un telefono.

Il testo descrive un uccello in una tempesta; il volatile che si guadagna la libertà uscendo dalla gabbia ma il destino gli ha riservato una nuova sfida, una tempesta dalla quale sarà difficile salvarsi. È un simbolo per raccontare il dramma dei rifugiati che per sfuggire dalla guerra o dalle persecuzioni si buttano in acqua per salvarsi. Testo molto breve ma fortemente evocativo.

The Most Beautiful Girl

La canzone nasce da una jam tra Waters, Jonathan Wilson, Gus Seyffert e Joey Waronker. Roger la aveva già registrata nel 2001 ai Compass Point di Nassau. La nuova versione ha il testo completamente diverso che parla della guerra realizzata con i droni ed in particolare di una donna dello Yemen uccisa da un attacco di missili Cruise. Non è una canzone sull’amore ma sulla condizione della donna e tutte le tragedie che si consumano sulla pelle delle donne di tutto il mondo.

La nuova veste nell’arrangiamento di Godrich ci riporta ancora una volta in pieno territorio Radiohead, in una sorta di delicato valzer sul quale la fanno da padroni il suono del pianoforte e gli archi arrangiati da Godrich insieme a David Campbell, un compositore canadese che è tra l’altro il padre del cantante Beck. Emozionante il finale, affidato al coro delle Lucius.

Smell the Roses

Nonostante i più attenti abbiano trovato similitudini musicali con “Have a Cigar” e “Pigs (Three Different Ones)”, si tratta di una traccia destinata a stemperare il clima delle canzoni che la precedono. Musicalmente contiene una serie di richiami ai temi di tutto il disco e anche un non troppo velato accenno ai cani di “Dogs” dei Pink Floyd.

Non è un vero e proprio singolo ma è stata comunque scelta per lanciare il nuovo album. Il legame con il passato è affidato al simbolo della centrale elettrica Battersea che nel nuovo brano viene immaginata come una camera di torture tedesca. “This is the room where we keep the human hair” (questa è la stanza in cui teniamo i capelli umani).

Il testo della canzone racconta di un drone che vede dall’alto una donna intenta a cucina le ossa, simbolo dell’adattabilità della donna resilient,e che fa quel che può fare con quello che l’uomo le lascia. In modo non troppo velato Waters comincia ad affermare che solo una donna, una madre può salvare il mondo. La donna non rovina ma crea la vita e dà continuità alla vita, l’uomo sembra riuscire a dare soltanto la morte.

Waters: “Non ci sono ‘noi’ o ‘loro’, siamo tutti insieme. Dobbiamo imparare a cooperare”.

Wait for Her / Oceans Apart / Part of Me Died

Chiude il disco una canzone d’amore, che è in realtà una piccola suite divisa in tre parti, che tratta temi ottimisti, sentimentali e romantici. Waters: “Sono romantici, certamente. Di diversi tipi di amore. In parte erotici. L’incarnazione del femminile. Ma è anche sulla natura trascendentale dell’amore. L’amore, se siamo abbastanza fortunati ad essere esposti ed abbastanza coraggiosi da abbracciarlo, ci può trascendere dal mondano al sublime”.

Il protagonista aspetta la sua donna e prende coscienza che nella vita vale la pena riconoscere l’amore, mentre l’uomo sembra non riuscire ad individuarlo facilmente. Questo sacrificio consumato a spese della donna, che cerca di migliorare la situazione che è compromessa, dimostra che essa ama e capisce più dell’uomo e che soltanto a lei sono riservate le speranze di un mondo migliore.

Waiting for her” trae spunto dalla poesia “Una lezione di kamasutra” dello scrittore e poeta palestinese Mahmoud Darwish (1941-2008). Questa poesia, tratta dalla raccolta “Il letto della straniera” edito dall’editore Epoché nel 2009, apre una scena del film Miral di Julian Schnabel (Festival del Cinema di Venezia del 2010).

Qual è la soluzione secondo Roger Waters? Mentre si avvicina ai 74 anni, con quattro matrimoni alle spalle e una vita non certo serena, egli indica la soluzione nell’empatia e nell’amore. Questa mini-suite parla di una storia d’amore ed è piena di una poesia che lascia senza parole. Sarà l’amore a portarci lontano dagli orrori della vita attuale e a trionfare su di essi. Waters punta così il dito contro i colpevoli delle crisi come i banchieri, cantando “Silence, indifference: the ultimate crime”. Alla fine di “Wait For Her” si intreccia il tema che riporta a “Déja Vu”, in un continuo gioco di rimandi al passato che fa venire in mente musicalmente le atmosfere del disco solista “The Pros And Cons Of Hitch Hiking”.

Stanco ma non domo, Roger Waters si dimostra ancora più acuto della sua stessa fama e individua gli errori in pochi, inequivocabili colpevoli, mettendo in discussione anche se stesso. Il suo grido di dolore, lucido e cristallino, cantato grazie a testi diretti ed essenziali, sono la risposta alla rassegnazione dei brani precedenti nelle tre canzoni che chiudono il disco.

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Le canzoni di Waters hanno spesso diverse letture e diversi punti di vista, ascoltabili a differenti livelli di coscienza ed è possibile che in alcune canzoni sia lui che si rivolge direttamente all’ascoltatore. Il brano parla del rapporto tra l’uomo e una donna importante. L’uomo cantato da Waters distrugge e fa del male, ha rovinato tutto quello che lo circonda; il politico, l’uomo di potere e le vittime sono i bambini non tanto come età ma come purezza interiore. È un mondo brutto quello che descrive Waters e se ci siamo ridotti così la salvezza sembra essere nelle cose semplici e nel ritorno ai rapporti puliti.

Il disco potrebbe deludere alcuni fan dei Pink Floyd, che hanno atteso l’uscita di questo lavoro con trepidazione, sopportando anche un ritardo di due settimane quando la casa discografica ha spostato la data di pubblicazione dal 19 maggio al 2 giugno. Le aspettative erano per un disco in linea con il precedente “Amused To Death”, risalente al 1992 e al suono dei Pink Floyd. Nei solchi di questo lavoro c’è la quintessenza di Roger Waters, una sorta di summa della sua carriera, dove si distacca notevolmente rispetto agli stili consolidati della band per merito del grande lavoro del produttore Nigel Godrich. Grazie alla sua storia e al suo passato, Roger Waters si può permettere oggi di non dover dimostrare nulla. Libero da questa incombenza, si è spogliato dall’uniforme del leader, componendo dodici affreschi con delicatezza e sensibilità difficili da rintracciare in altri dischi rock.

Roger Waters non si è ancora rassegnato ed ha forza ed energia da vendere, giocandosi la faccia e il nome in un periodo storico dove tutti sembrano defilarsi di fronte ad un impegno politico e sociale serio. Avrebbe potuto affidarsi musicalmente al passato e realizzare un disco percorrendo comodi solchi del suo periodo migliore. Si è invece messo in discussione, è sceso in trincea sporcandosi le mani di fango e sangue, realizzando un disco coraggioso, dalle armonie e dai temi melodici che incantano ed emozionano.

Is This The Life We Really Want?” è come una lunga canzone di 54 minuti, che si snoda e si intreccia su suoni e parole profonde e pesanti come macigni, un regalo che alla soglia dei 74 anni Roger Waters sembra aver fatto più a se stesso che a tutti i suoi fan. Non sembra esserci una canzone migliore delle altre, come se l’artista avesse inteso questo lavoro come un’unica suite. Fenwick lo conferma con le sue parole: “È un concept, va ascoltato per intero, non c’è un singolo brano che possa definirlo. Ecco perché, prima dell’uscita, faremo sentire al pubblico tre diverse canzoni”.

È un disco costellato di semi che germoglieranno chissà quando, domande e tormenti che riletti tra qualche tempo potranno aver trovato risposte oppure fornito lo spunto per nuovi interrogativi interiori, che si paleseranno nella nostra vita e che scopriremo giorno dopo giorno, nascosti tra note e parole. Sono questi mille segreti la vera eredità che ci lascia questo disco che sembra essere senza tempo ma al tempo stesso legato indissolubilmente all’epoca che stiamo vivendo oggi, le cui conseguenze ricadranno sulla nostra pelle.

Grazie Roger Waters per averci regalato i tuoi pensieri: la nostra ‘resistenza‘, puoi contarci, comincia oggi…